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SCENE DI VITA QUOTIDIANA
Michelangelo Pistoletto e Benjamin Greber



29 ottobre - 15 dicembre 2016

 

Una mostra che attiri l’attenzione non tanto sul soggetto della narrazione quanto sui modi espressivi voluti dall’artista, suggerisce al visitatore una riflessione sulle proprie reazioni nei confronti della tecnica usata e soprattutto una verifica sulle forme in cui una certa scelta riesce ad essere convincente per evocare il concetto di arte, così come l’estetica rassicurante del passato ci ha guidato a comprenderla. Ma tale cammino, che indaga il mondo dell’uomo e si apre di necessità, per l’arte contemporanea, agli aspetti della tecnica e della tecnologia, conduce essenzialmente ad una meditazione su se stessi, interrogati dalle opere esposte e dalla reazione - a volte intermittente - di armonia o di rottura, di sintonia o rifiuto.   
Pistoletto e Greber, così distanti per generazione, formazione e milieu culturale, rappresentano voci diverse ma complementari per descrivere scene di vita quotidiana vicine al quotidiano di ciascuno. Se la grande arte del passato ha abituato ad entrare nei salotti e nei giardini delle famiglie borghesi, ad esempio, se ha portato ai nostri occhi l’esotico e i paesi lontani, le opere in mostra con raffinato minimalismo tracciano un solco nel mondo privato individuale: uno specchio, una chiave, un binocolo; un gruppo di giovani attorno a un tavolo e ancora insoliti ma riconoscibili dispenser di merendine o sigarette, allusivi più che realistici eppure tipicamente presenti nei gesti di ogni giorno dell’homo technologicus, che vive un tempo regolato da algoritmi.

Dalla superficie riflettente degli specchi di Pistoletto alle realizzazioni di cartone opaco di Greber c’è una distanza tecnica incommensurabile; l’esame delle coordinate di spazio e tempo, però, crea un gioco di riverberi che unisce le voci degli artisti in una insolita ma convincente consonanza.

Lo spazio di Pistoletto è profondo, virtualmente infinito e sa chiamare lo spettatore dentro l’opera: attraverso le leggi dell’ottica, lo pone nella scena rendendolo parte/soggetto dell’opera stessa; è uno spazio reale che racconta riflessi reali, racchiusi entro il limite di misure contenute, ma sa trasportare nell’atmosfera quasi metafisica di un altrove composto e compiuto, potenzialmente colmabile con ogni presenza che si affacci nella luce dello specchio. Nel momento in cui lo spazio del visitatore incrocia lo spazio dell’opera, si compie l’atto comunicativo che si perfeziona e si moltiplica attraverso le altre presenze che entrano in scena. In assenza di uno sguardo che guardi, l’opera sembra vivere di meno, poiché filosoficamente uno specchio non esiste se non nell’atto del rivelare le forme di chi, cercando nel suo volto una verità migliore, entra in contatto con il suo doppio. 
Nelle sculture di Greber lo spazio è chiuso dentro e attorno la superficie di una materia incapace di originare riflessi, abilitata piuttosto a trattenere nell’incrostazione delle diverse mani di vernice tutta la possibile capienza del parallelepipedo: è uno spazio intimo e rappreso, che stride con la destinazione ideale delle macchine al servizio dell’uomo. Nulla esce da quelle casse di non risonanza, nessun rumore di vita o di comunicazione, nessun segno di realtà là dove il dispenser – o meglio l’astrazione  simbolica di questo – dovrebbe essere in grado di offrire qualche cosa al fruitore/spettatore, che si trova invece fuori dal ciclo della produzione non ricevendo, appunto, nulla. E lo spettatore, che magari ha appena visto il suo volto specchiato nella lastra di Pistoletto, prova un senso di vacuità frustrante, come avviene per ogni atto comunicativo inconcluso. Non c’è il rapporto dell’uomo con la macchina, ma l’orrore dell’uomo con il vuoto, come infine resta vuoto lo specchio, senza lo sguardo di chi guarda.
Attraverso l’esame della tecnica usata, le opere consentono inoltre un interessante accostamento per quanto concerne la coordinata temporale. La superficie di Pistoletto ha registrato giorno dopo giorno la presenza e l’attenzione incantata di decine, centinaia di spettatori/soggetti, ma non ne ha trattenuto il passo, pertanto vive in assenza di memoria; senza memoria si vanifica l’essenza stessa del tempo, che rimane solo un eterno presente, destinato a mutare a ogni nuovo incontro dello specchio con l’altro, di cui appunto non resta nulla. Ma l’uomo di oggi ha affannosamente bisogno di esserci, di trovare e mostrare prove del suo vivere, come dimostrano i selfie e i social network, come se solo attraverso la sua immagine - che talvolta non è neppure tale ma è una somiglianza, o un simbolo che lo rappresenta -  avesse conferma della sua esistenza, del suo passaggio sulla terra. Nell’opera di Pistoletto, ciascuno vive il tempo del suo cammino di fronte e in mezzo alla scena  rappresentata: il proprio viso vicino al viso dell’artista, massimo delirio dell’Io; la partecipazione all’ultima cena/scena destinata ad essere davvero l’ultima, a meno di avere la possibilità di riflettersi nuovamente in quella lastra; il proprio esistere - che nell’effimero tempo dello specchio diviene fragile - fissato nella rappresentazione quasi manieristica di uno specchio di lucido legno di inizi Novecento. Finita la mostra, quello spettatore scompare, muore in qualche modo nell’opera, incapace per sua natura di trattenere e lasciare tracce.  
Greber sceglie invece di affidare alle sculture un significato di stratificazione temporale, come testimoniano le diverse mani di vernice, nella finzione di un utilizzo solo astratto. Gli oggetti sono stati dipinti più volte (tipici per l’artista i colori industriali dei macchinari o delle gru), come se ciò fosse stato necessario a causa dell’uso da parte dell’uomo, che avrebbe logorato la macchina continuando a servirsene; ma queste ‘scatole del tempo’, pur non essendo al servizio dell’uomo, riescono a essere simulacro di una società industriale in cui il termine ‘società’ risulta davvero inopportuno, visto che se mai i dispenser raccontano un’epoca in cui la relazione con la macchina genera una perfetta solitudine. Nella finzione rappresentata da Greber, dopo l’uso subentreranno il logoramento e quindi l’abbandono, ma le macchine con i loro echi – qui, le reazioni e i pensieri dello spettatore - sapranno raccontare agli archeologi di domani il nostro tempo difficile e veloce. La simulazione di una relazione con l’uomo, di un atto di scambio – denaro per un prodotto – che resta irreale e irrealizzabile sottolinea anche qui la solitudine del fruitore, che nell’atto immaginato di servirsi delle macchine registra il senso del limite e dell’impotenza, pari a quello di chi – il mito di Narciso vale per tutti – può innamorarsi di un’immagine dipinta, incapace di donare e ricevere amore.
Dunque gli specchi di Pistoletto come le macchine di Greber, quando dovrebbero mettere in relazione il mondo ‘interno’ dell’opera con la realtà ‘esterna’ dell’uomo, sottolineano invece la definitiva solitudine di chi fallisce nell’incontro con l’altro; l’uno con il ricorso al senso dell’effimero, l’altro con la sottolineatura dell’inutile, ricordano che ciascuno non ha più rapporti con gli altri uomini e quindi è solo, di fronte alle macchine come di fronte a se stesso.
Permane la possibilità di apparire, di dire “io c’ero”, ma apparire non significa esistere davvero ed essere ritratto in una fotografia, come fare una comparsa in uno specchio o allungare una mano verso lo sportellino di un dispenser, non significa Esserci in modo da ottenere un appagamento esistenziale.
Leonardo da Vinci, il primo homo technologicus dell’età moderna, ha scritto nei Pensieri: “Sii solo, e sarai tutto tuo”. Ma appartenere a se stessi in un ansioso, doloroso solipsismo significa non entrare in relazione con nessuno; ‘essere di se stessi’ non dà la gioia appagata di appartenere al mondo dell’uomo, che si riduce a vivere un epico e drammatico esodo dalla società, che avrebbe dovuto essere collettività e comunicazione.
Lo spettatore - a tratti catturato a tratti respinto - sperimenta tutto ciò e prova alternativamente un senso di fascino e di estraneità; vivendo per un istante nello specchio e non vivendo nella macchina senza voce di cartone, realizza in perfetta solitudine il suo passaggio fragile tra le forme, le scene e le testimonianze della vita reale.
Ma Pistoletto e Greber hanno fiducia nella forza salvifica dell’arte e la propongono come il più forte mezzo per svegliare le coscienze di fronte all’inesorabile fluire di un tempo portatore di un progresso che, anziché migliorare la vita, conduce l’uomo a retrocedere nell’isolamento e nell’alienazione frustrata. L’arte – attraverso le sue provocazioni e le opere ‘scomode’ che inducono lo spettatore a distaccarsene, indifferente o inorridito - può davvero diventare occasione e luogo di incontro e comunicazione, scambio e dibattito. Non è la bellezza che salverà il mondo, ma l’incontro di uomini e lo scambio di anime e di idee.

 

Isabella Colonna Preti
 

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